Empatia e scrittura immersiva

Cos’è l’empatia? In che senso mi serve per scrivere un libro? Devo essere più empatico con chi mi critica?

No. O meglio, forse. Ma non è il punto di questo post.

Riprendiamo il nostro viaggio nella scrittura immersiva. L’ultima volta avevo promesso un articolo sul punto di vista, quindi eccovi una guida completa e funzionale sull’empatia e come farla scaturire (tranquilli, poi arriva pure quello sul punto di vista).

Cos’è l’empatia?

Abbiamo già visto che l’empatia è quella condizione necessaria a volere identificarsi col personaggio, senza la quale tutte le nostre cure nel gestire punto di vista, flusso delle informazioni e aspetti strutturali non servono a un accidente. Vediamolo con un esempio.

Abbiamo creato il nostro mondo fantasy originale, un cattivo odioso ma intelligente, e una trama ricca di conflitti emozionanti e tematicamente coesi. Problema: il nostro eroe è un pedofilo nazista che, sin dal primo capitolo, stupra ragazzine mentre uccide cuccioli di foca col pestacarne. Se davvero la storia inizia così, non importa quanto è abile l’autore, difficilmente proveremo empatia per il protagonista.

Pestacarne in acciaio

L’empatia per un personaggio, in soldoni, è preoccupazione indotta. Se è in pericolo siamo spaventati dall’eventualità che la situazione precipiti. Se gli cose gli vanno male siamo tristi assieme a lui e speriamo che in futuro gli vada meglio. E, se alla fine riesce a spuntarla e dare una lezione a chi lo ha fatto soffrire ingiustamente, ci esaltiamo assieme a lui (e proviamo sollievo per la preoccupazione che svanisce).

Se invece speriamo che una foca gli strappi la faccia a morsi e la ragazzina violentata gli tagli il cazzo, non stiamo provando empatia. Ma odio.

A cosa serve l’empatia?

Da un punto di vista narrativo l’empatia serve a far leggere la storia al lettore e farlo emozionare. È un concetto molto legato all’immersione nel personaggio. Se non proviamo empatia per qualcuno non possiamo davvero immergerci nel suo punto di vista. E se non ci immergiamo nel personaggio, non possiamo mai provare un grado intenso di empatia (magari possiamo provare una mezza empatia distaccata, ma perché puntare a fare le cose a cazzo di cane?).

Provare empatia significa identificarsi, comprendere qualcuno in modo profondo. Come se la sua vicenda fosse un po’ la nostra.

Se proviamo empatia, ci preoccupiamo per le brutte cose che succedono al protagonista. Soffriamo assieme a lui. E continuiamo la storia nella speranza che qualcosa cambi per il meglio.

Come la faccio?

Far scaturire l’empatia verso il protagonista è una priorità per ogni storia. Questo significa che prima la facciamo scattare, meglio è. O, per essere più precisi, che dovremmo farla scattare nella prima scena in cui compare il protagonista.

Abbiamo già visto che è necessaria per far immergere il lettore, emozionarlo e farlo continuare a leggere. Non possiamo rimandarla a metà libro.

Nella visione classica abbiamo due condizioni. Proviamo empatia per un personaggio se è moralmente giusto, e soffre ingiustamente (tutte e due, non solo una!). Entrambe le parti richiedono una spiegazione approfondita perché, dette così, possono essere molto ambigue.

aristotele
Se vi interessa approfondire la visione classica dell’empatia potreste leggere la Poetica di Aristotele: è inaspettatamente breve come testo. (Oddio, in realtà Aristotele non parla di empatia, ma solo perché i greci non avevano la parola enpatheia, che è una finta parola greca inventata nel 19° secolo. Ma la parola eleos può essere una traduzione accettabile, anche se di solito viene tradotta pietà. E Aristotele parla, tra l’altro, di eleos…).

In sintesi, tendiamo a vederci come brave persone di solito e, anche nel caso che non fosse così, quando le cose ci vanno male, spesso ci sembra un’ingiustizia. E se siamo immersi in un personaggio, proveremo qualcosa di simile, per motivi diversi dai nostri.

Persone moralmente giuste*…

Questa è la parte più ambigua. Essere delle brave persone è una cosa difficile da definire. Andando al contrario, possiamo dire che non significa essere buoni, né onesti, né perfetti, né simpatici. Si possono possedere o meno queste qualità, senza interferire davvero col “moralmente giusto”.

Un delinquente violento e instabile che rapina la gente per strada, magari spende la refurtiva (o parte della refurtiva) per pagare le medicine alla nonna malata. E subito sembra meglio degli altri delinquenti mostrati nella scena che, invece, si spendono tutto in macchinette e droga.

D’altra parte apparire moralmente giusti è una qualità contestuale. Significa essere moralmente più giusti del tizio alla tua destra e di quello alla tua sinistra.

O, per essere più precisi, apparire moralmente più giusti dei personaggi assieme a cui vieni presentato all’interno del mono della storia. In un poliziesco d’azione, un poliziotto può apparire moralmente giusto anche se sta facendo cose che, nella realtà, gli costerebbero il posto (o più probabilmente un trasferimento e una lavata di capo, ma il senso rimane).

Ma il mio protagonista è immorale!

Ma forse vuoi fare una storia con un protagonista che è uno spacciatore violento, infido e manipolatore. Così, su due piedi, non sembrano delle qualità molto belle da cui tirar fuori giustizia morale.

Abbiamo già visto che la motivazione gioca un ruolo importante: spacciare e rapinare, se serve a pagarti sigari e puttane sembra più brutto di quando serve ad aiutare qualcuno, sfuggire alle ingiustizie o a lottare per un ideale. Chiaramente, se il protagonista viene affiancato da gentaglia che commette i suoi stessi crimini per ragioni meno nobili, ancora meglio!

Anche il mondo in cui si svolge la storia ha un ruolo importante: se stabilisci sin da subito che il tuo è un mondo molto violento, sessista, o con altre belle qualità che oggi non ci piacciono, il protagonista avrà un po’ più di margine d’azione immorale (ricorda che la giustizia morale è contestuale: in mezzo a un gruppo di schiavisti sadici che seviziano e ammazzano per divertimento i loro prigionieri, anche un assassino a pagamento, che si limita a uccidere per lavoro, può sembrare una persona tollerabile).

Empatia è “apparire” moralmente giusti

Ovviamente il contesto va presentato prima del protagonista: non possiamo iniziare con il protagonista che assassina una sedicenne in cambio di denaro e spiegare dopo “No, aspettate: in realtà non è così male se consideriamo il contesto!” Prima il contesto brutto, poi il personaggio che si comporta (quantomeno) un po’ meglio.

Per finire, ricorda che il protagonista deve apparire, sin dall’inizio, moralmente giusto. Ma non lo deve essere necessariamente per davvero!

Se siamo immersi per bene nel personaggio è un po’ più impegnativo, ma è comunque possibile presentarcelo nelle sue azioni più nobili e lasciare a un secondo momento del libro il flashback di quando stuprava le foche, schiavizzava i bambini o faceva altre brutte cose.

Chiaro: questa rivelazione ci farà riconsiderare quello che finora credevamo sul personaggio. Ma se l’empatia è stata lanciata sin dall’inizio in modo corretto, e il personaggio cerca concretamente di affrontare i problemi causati dal suo passato, restiamo comunque interessati e speriamo che riesca a redimersi.

Giustizia morale e culture strane

Abbiamo detto che derubare gli altri, ucciderli o schiavizzarli sono cose brutte. Ma forse non tutti l’hanno sempre pensata così. Ok, ovviamente i vichinghi non apprezzavano molto se qualcuno di loro si metteva ad affettare e derubare i suoi vicini. Ma farlo agli inglesi andava benissimo.

Ora, a meno che non vuoi pubblicare un romanzo nella Norvegia dell’undicesimo secolo, questo potrebbe essere un falso problema. Ma se la tua storia si svolge nella Norvegia dell’undicesimo secolo, e vuoi creare una storia realistica, ben immersa negli usi e i costumi vichinghi che hai studiato per bene, ma che non abbia come protagonista quello che ci sembrerebbe un maniaco assettato di sangue e oro, sei di fronte a un potenziale problema.

empatia vichingo
Un vichingo

Per i fantasy c’è un problema simile: a meno che non vuoi fare una fotocopia del mondo occidentale moderno ma con spade e palle di fuoco al posto delle pistole, è probabile che nel tuo mondo si siano sviluppate culture molto diverse dalla nostra. Culture che tollerano brutte cose come la schiavitù e l’uccisione di cuccioli di foca. Tipo i vichinghi, insomma.

Aggirare l’immoralità del passato

Ogni storia, beh, è una storia a parte, ma per risolvere il problema eccoti alcuni metodi d’approccio generali.

  • Il protagonista è un cattivo moderato. Ok, il protagonista è un nazista, ama il furher e pensa sia giusta l’espansione militaristica delle Germania. Ma uccidere gli ebrei e gli zingari gli pare brutto. “Non sarebbe meglio rieducarli, dargli lavori dove non toccano denaro né bambini altrui, in modo da non indurli alle loro naturali inclinazioni criminali? In fondo potrebbero essere utili e potrebbero convivere con noi, come cittadini inferiori, senza morti né violenza”. Non è proprio una gran cosa, ma messo di fianco ad Hans Landa sembra quasi Gandhi. E poi, magari, questo è solo l’inizio. Andando avanti sarà proprio il suo arco di trasformazione a renderlo una persona davvero migliore.
  • Il protagonista vive un’avventura che non tocca argomenti scottanti. Ok, i pirati americani, in Africa, ogni tanto rapivano la gente del luogo per rivenderla come schiavi. Ma la nave pirata del protagonista non sta facendo niente del genere. Sono alla ricerca di un tesoro e la schiavitù non trova spazio nel libro (occhio a usare questo metodo solo nei casi che lo permettono. Se glissi su argomenti scottanti troppo conosciuti, qualcuno potrebbe prendersela a male lo stesso).
empatia pirati
Forse sono questo tipo di pirati?
  • Il protagonista ha una buona ragione per essere “illuminato”. Mettere in un villaggio vichingo un personaggio con la moralità e la boria di Lisa Simpson può sembrare molto sospetto (perché diamine è così? Dove ha studiato tutti questi bei concetti?). Senza contare che gli appassionati di romanzi storici, di solito, non amano sentire una persona che ha il privilegio di vivere nell’era degli antibiotici lanciare giudizi sprezzanti verso la loro epoca preferita. Ma, se il personaggio ha una buona ragione per essere illuminato, beh, puoi farlo molto più radicale di quello che noi riteniamo illuminato oggi. Nell’America delle piantagioni e degli schiavi una donna bianca che, sfidando leggi e reputazione, sposa un ex schiavo nero, può benissimo pontificare sul fatto che, in un’America più giusta, un nero dovrebbe avere la stessa possibilità di un bianco di diventare poliziotto, giudice o addirittura presidente. Magari prima di conoscere il suo futuro marito non la pensava così, ma ora ha sviluppato una nuova visione, molto più credibile e organica di avere una Lisa Simpson in un villaggio vichingo perché sì.

Competenza e resilienza

Non posso garantirvi che queste due caratteristiche siano viste come “moralmente giuste” solo dalla nostra cultura oggi, o se sia qualcosa di connaturato nel nostro istinto (probabilmente la seconda), ma a meno che non volete pubblicare il vostro libro con una macchina del tempo, è bene che le teniate a mente.

Competenza e resilienza sono due parole del cazzo che possono significare molte cose, ma per la vostra storia significano grosso modo che:

  • il protagonista NON è un idiota;
  • il protagonista non passa il tempo a piagnucolare e lamentarsi.

In pratica, il protagonista dovrebbe essere un tipetto capace, con tutte le carte in regola per “vincere” (la sua posta in gioco nella storia). Quando un personaggio compie scelte idiote senza alcuna giustificazione, l’immedesimazione si rompe (di solito tendiamo a non considerarci idioti, e non ci piace identificarci in modo profondo con gente che reputiamo tale).

Pensate ai film horror slasher, tipo Halloween o Nightmare, dove i teenager sono tutti idioti e odiosi, e quando sono in pericolo commettono sempre le scelte più stupide. Quando muoiono malamente, invece di dispiacerci e disperarci con loro, sghignazziamo. Personaggi del genere non fanno scattare l’empatia, e non sono buoni protagonisti per la tua storia.

A ben vedere, in realtà, comportarsi in modo stupido in situazioni pericolose e inaspettate, che ci colgono impreparati, è molto frequente anche tra le persone intelligenti. Ma i personaggi della fiction sono un pochino più competenti di noi comuni mortali. Non per forza super-eroi, ma abbastanza forti da mettere in fila tre pensieri razionali e seguirli anche in situazioni di pericolo mortale.

Piangersi addosso

Per finire il protagonista non è un piagnucolone. Non vuol dire che è un soldatino spartano che quando viene preso a pedate sui denti dal suo boss, risponde “Grazie, signore. Posso averne un’altra, signore?”

Il tuo protagonista ha tutto il diritto di lamentarsi o addirittura disperarsi quando gli succede qualcosa di orribile o molto fastidioso. Sono reazioni naturali, e possono aiutarti a definire meglio il personaggio. Ma se continua a lamentarsi della stessa cosa tre volte per pagina per le prossime cinque pagine, stai sbagliando qualcosa. Il personaggio sembrerà lamentoso e poco attivo.

empatia lemongrab
O magari addirittura psicotico.

Se il problema che origina la lamentela è legato al tema e alla trama della storia, dovrebbe affrontarlo in qualche modo (anche in modo sbagliato, o fuggendo!), invece di lamentarsi mentre sta con le mani in mano. Se l’evento che origina il problema non è inerente alla trama, perché diamine stai sprecando parole su una perdita di tempo?

In entrambi i casi, se il personaggio si lamenta invece di agire in un qualche modo, perderà ovviamente di agenzia (agentività? La qualità di fare cose che fanno procedere la storia e il suo arco di trasformazione).

Quando vuoi far lamentare il tuo personaggio, assicurati che abbia una buona ragione, e cerca di rendere la lamentela interessante: può rivelarci qualche informazione sul suo carattere, portarlo ed elaborare un piano d’azione futuro che introduce la prossima scena, o anche, semplicemente, essere molto buffa.

…che soffrono ingiustamente

Passiamo alla seconda condizione per l’empatia. La sofferenza ingiusta è un concetto più intuitivo della giustizia morale. Al personaggio le cose vanno male, e tutto fa pensare che stiano per andare peggio. Questo scatena la nostra preoccupazione per lui. Il fatto che la sofferenza sia immeritata, o comunque sproporzionatamente grande rispetto alla propria eventuale colpa, è importante. Se il personaggio si prendesse a martellate da solo sullo scroto, faremmo un po’ fatica a immedesimarci in lui.

Ma queste sofferenze ingiuste da dove vengono? Sono solo sfighe o sono conseguenze ingigantite dei difetti del protagonista? Entrambe. All’inizio, quando lo presentiamo, è accettabile che sia una brutta cosa completamente indipendente dalle sue scelte. Un ingiustizia per cui non può fare nulla.

Ma poi si possono sfruttare i difetti del protagonista. Magari ha effettivamente commesso un errore, ma le conseguenze sono esagerate e ingiuste nella sofferenza che gli infliggono. Se il protagonista riuscisse a superare il suo difetto fatale, probabilmente gestirebbe meglio le situazioni che lo fanno soffrire, il che lo rende in un certo senso responsabile. Ma questo non significa che sia colpevole!

Inoltre occhio a non esagerare sul lato opposto e rendere il tuo protagonista incredibilmente sfortunato, in modo patetico ed esagerato, col rischio di trasformare la tua storia in una farsa. Se presenti le sfighe del protagonista in modo poco credibile, diventeranno comiche, alla Willy Coyote, e a meno che non vuoi scrivere una storia del genere, è qualcosa che vorrai evitare.

empatia willy coyote
Tanto sappiamo già che Bip Bip ci passerà attraverso come se fosse un vero tunnel, e quando il povero Willy Coyote gli correrà dietro ci si spappolerà contro. Non è giusto!

Ricorda che chi ha inflitto sofferenze ingiuste al protagonista, nello svolgersi del libro, può essere punito e preso a calci in culo (quando il protagonista se lo è guadagnato) con grande soddisfazione ed esaltazione del lettore.

Empatia, punto di vista e flusso delle informazioni

L’empatia, visto come funziona, può sembrare più legata al contenuto che allo stile. Questo, oltre a tradire una visione errata che divide contenuto e stile invece di considerarli un insieme organico e indissolubile, mostra una mancata comprensione di cosa significa scrittura immersiva.

In questo caso, ti consiglio di rileggere il mio articolo, ma se proprio hai fretta… Lo scopo della narrativa immersiva è far immergere il lettore (duh…), ovvero farlo immedesimare profondamente nel punto di vista di qualcuno. Se questo qualcuno ti crea repulsione, non ti ci vuoi immergere e non lo farai, anche se il resto della scrittura fosse stilisticamente perfetta (e non lo è. Stile e contenuto sono indissolubili e se fa schifo uno, a ben vedere, neanche l’altro può essere un gran che).

Anche il flusso delle informazioni ritorna, qui in una visione più macro rispetto a quella dell’ordine delle singole parole che abbiamo visto qui. Le informazioni sul protagonista vanno comunicate nel giusto ordine per darci tutte le motivazioni ed appigli per immergerci dentro di lui. Sbagliare l’ordine (prima azioni orribili e poi giustificazioni) uccide l’empatia.

Esercizi

Oggi facciamo uno degli esercizi più atroci che si possono fare: faremo una fanfiction di merda!

Scegli una storia che ti piace, non importa se è un fumetto, un libro o un film, e prendi il cattivo (o uno dei cattivi se ce ne sono tanti: più odioso è, meglio è).

Come riscriveresti l’inizio della storia per presentare l’antagonista come protagonista e farci scattare l’empatia verso di lui?

In quale scena potremmo introdurlo per mostrarci (senza cambiarlo radicalmente) un contesto che lo faccia apparire moralmente giusto? Quali informazioni nascondere su di lui e come farlo? Quali nuove motivazioni potrebbe avere? In che modo la sua sofferenza è ingiusta?

Sfrutta gli elementi che ti ho illustrato in questa guida e allenati: ogni personaggio può apparire come un eroe, con la giusta inquadratura.

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